Con l’Ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di Cassazione si sofferma in prima battuta sull’interpretazione letterale dell’art. 337 septies c.c. il quale dispone che “il giudice, valutate le circostanze, può disporre in favore dei figli maggiorenni non indipendenti economicamente il pagamento di un assegno periodico. Tale assegno, salvo determinazione del giudice, è versato direttamente all’avente diritto”.
I giudici di legittimità evidenziano dunque che la questione si pone in generale “fuori dalla specifica situazione di una crisi coniugale; dove, sovente, il reale conflitto che emerge e gli interessi sottesi, che impropriamente giocano un ruolo, sono quelli tra i genitori, non con il figlio maggiorenne ormai adulto. E l’estraneità del tema al rapporto fra genitori risulta in modo incontrovertibile dal diritto positivo: l’assegno è versato direttamente all’avente diritto, salva diversa determinazione del giudice”.
Al giudice e al suo discrezionale giudizio è pertanto rimessa la valutazione delle circostanze che fondano il diritto.
A tal proposito, la Corte evidenzia che “il diritto al mantenimento del figlio maggiorenne non può sorgere già “abusivo” o di “mala fede”: onde, perché esso sia correttamente inteso, occorre che la concreta situazione economica non sia il frutto di scelte irragionevoli e sostanzialmente volte ad instaurare un regime di controproducente assistenzialismo, nel disinteresse per la ricerca della dovuta indipendenza economica […] Non è dunque necessaria una prescrizione legislativa, che, come taluno in dottrina aveva auspicato, fissi in modo specifico l’età in cui l’obbligo di mantenimento del figlio viene meno: in quanto, sulla base del sistema positivo, tale limite è già rinvenibile e risiede nel raggiungimento della maggiore età, salva la prova (sovente raggiunta agevolmente ed in via indiziaria) che il diritto permanga per l’assistenza di un percorso di studi o, più in generale, formativo in fieri, in costanza di un tempo ancora necessario per la ricerca comunque di un lavoro o sistemazione che assicuri l’indipendenza economica. […] In mancanza il figlio maggiorenne non ne ha diritto; ed, anzi, può essere ritenuto egli stesso inadempiente all’obbligo, posto a suo carico dall’art. 315-bis, comma 4, c.c., di “contribuire, in relazione alle proprie capacità, alle proprie sostanze e al proprio reddito, al mantenimento della famiglia finché convive con essa”. […] La raggiunta età matura del figlio, in ragione dello stretto collegamento tra doveri educativi e di istruzione, da un lato, ed obbligo di mantenimento, dall’altro, assume rilievo in sé (i primi non potendo che cessare ad un certo punto dell’evoluzione umana): l’età maggiore, pertanto, tanto più quanto è matura – perché sia raggiunta, secondo l’id quod prelumque accidit, quell’età in cui si cessa di essere ragazzi e di accettare istruzioni ed indicazioni parentali per le proprie scelte di vita, anche minuta e quotidiana, e si diventa uomini e donne- implica l’insussistenza del diritto al mantenimento.
Invero, occorre affermare come il diritto al mantenimento debba trovare un limite sulla base di un termine, desunto dalla durata ufficiale degli studi e dal tempo mediamente occorrente ad un giovane laureato, in una data realtà economica, affinché possa trovare un impiego; salvo che il figlio non provi non solo che non sia stato possibile procurarsi il lavoro ambito per causa a lui non imputabile, ma che neppure un altro lavoro fosse conseguibile, tale da assicurargli l’auto-mantenimento. […] Quanto al tipo di impiego desiderato, non sussiste, nella dovuta ricerca dell’aspirato lavoro, un rigido vincolo alla preparazione teorica in atto, dal momento che integra, invece, un dovere del figlio la ricerca comunque dell’autosufficienza economica, secondo un principio di auto responsabilità nel contemperare le aspirazioni di lavoro con il concreto mercato del lavoro”.
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